Le perversioni dei brevetti (1)

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Pubblicato il: 27 Agosto 2006

Tanto per allargare un po’ il discorso del post precedente, pubblico qui parte di un mio testo di qualche anno fa riguardante i brevetti, finora non pubblicato.
Potrebbe anche chiamarsi “Le perversioni del libero mercato 1 (aka L’Etica Aziendale)”, ma mettendola su questo piano, la serie non finirebbe mai…
È lungo, ma spero interessante. Comunque, per non annoiare, ho messo un link di continuazione a metà.

In tutte le legislazioni esiste il brevetto ed è visto come un incentivo alla ricerca. Il ragionamento è: assicurando una ventina di anni di sfruttamento esclusivo dell’invenzione o di introiti derivanti dai diritti, l’investimento degli ingenti capitali necessari alla ricerca diventa conveniente.
In teoria è giusto, ma il problema è che la realtà non è quasi mai così. Spesso la presenza del brevetto è un ostacolo alla diffusione di una invenzione. A volte ne provoca anche la scomparsa.
Andate a vedere, per esempio, a quando risale il brevetto dell’air-bag, che pure è un oggetto salvavita (secondo le stime del governo statunitense, 15.000 vite salvate contro le 242 perdute perché il passeggero non aveva la cintura al momento dell’impatto) e scoprirete che è del 1952 e appartiene a tale John Hetrick.
Il brevetto arrivò a scadenza nel 1972, guarda caso proprio un anno prima che General Motors decidesse di piazzare i primi air-bag della storia dell’automobile su alcune versioni della Chevrolet Impala. Inoltre, le industrie automobilistiche erano molto reticenti all’installazione di questo sistema, anche quando tutti i test ne provavano l’efficacia, perché aumentava costi e prezzi, tanto che il governo statunitense dovette renderlo obbligatorio con una legge nel 1984.
Tutto ciò dimostra che:

  • le aziende hanno consapevolmente ritardato per almeno 20 anni l’adozione di un sistema salvavita;
  • anche a brevetto scaduto, le aziende non lo avrebbero introdotto senza una disposizione governativa, a riprova che il cosiddetto libero mercato necessita di un controllo continuo e feroce;
  • pur avendola brevettata, Hetrick non guadagnò un solo penny dalla sua invenzione;
  • si tratta di una ulteriore prova che l’esistenza dei brevetti non porta benefici ai consumatori e non incrementa la ricerca, anzi, spesso la blocca;
  • dov’è l’etica aziendale?


Volete altri esempi?. Non c’è problema. Sparlare di industria automobilistica e ricerca, ma in genere di industria e ricerca, è facile come sparare sulla Croce Rossa.
Motore WankelChiedetevi, per esempio, che fine ha fatto il motore Wankel.
Non sapete cos’è? Non mi stupisce. Il motore rotativo progettato da Felix Wankel (prototipo nel 1936, definitivo nel 1954) andava anche lui a benzina o gasolio e rimase nell’ombra per circa 20 anni (fino alla scadenza del brevetto, cvd).
Poi, verso la fine degli anni ’60, la NSU, la Mercedes e la General Motors ne realizzarono dei prototipi. Solo negli anni 70 l’azienda tedesca Auto Union lo realizzò montandolo sulla Nsu Ro 80, una berlinona di rappresentanza regolarmente distribuita che avrebbe poi ispirato, 10 anni dopo, le linee guida delle Audi 100. Le dimensioni erano quelle delle grandi Mercedes di allora, ma il motore Wankel era di soli 993 centimetri cubi e permetteva prestazioni di primo piano (NB: le Mercedes con uguali prestazioni e dimensioni avevano cilindrata 2000). La Nsu Ro 80 (eletta auto dell’anno) era un’auto veloce e in più aveva un motore piccolo e rivoluzionario. I consumi erano quelli di un’automobile di media cilindrata e qui, ecco nascere i vantaggi ma anche i problemi.
Certamente c’erano parecchi problemi di natura tecnica, ma probabilmente risolvibili con la ricerca. Forse la maggior parte non era di natura tecnica. Il dato di fatto è che il motore Wankel è praticamente scomparso dal mondo dell’automobile. Non se ne è più parlato e anche la sua memoria, in Europa, è quasi scomparsa.
La ragione ufficiale erano i costi della ricerca che sarebbe stata necessaria per renderlo affidabile come il collaudatissimo motore a scoppio. Ah si? Ma le aziende non fanno anche ricerca? Come staremmo adesso, a oltre 30 anni di distanza, se le auto avessero sempre avuto cilindrate inferiori?
I giapponesi della Mazda, invece, hanno continuato la ricerca, lo hanno reso affidabile già alla fine degli anni ’60 e oggi lo troviamo sulla Mazda RX-8. Nel loro sito il nome di Felix Wankel appare una o due volte. Il motore rotativo naturalmente nel frattempo è diventato il motore rotativo Mazda e ha assunto il nome di Renesis (acronimo di Rotative e Genesis).
A questo punto, mi chiedo se sia davvero così difficile sviluppare motori a energie alternative (alcool, olio, elettricità, idrogeno) visto che i prototipi già funzionano. Ora, dato che una delle priorità dell’umanità dovrebbe essere quella di abbattere l’inquinamento, forse basterebbe che tutte le aziende automobilistiche fossero costrette a creare un consorzio di ricerca che si occupa di sviluppare anche solo i fondamenti del motore a idrogeno (come nel caso del motore a scoppio in cui i fondamenti sono noti a tutti e poi ognuno applica le proprie migliorie) e investirci quello che normalmente investono nella cosiddetta ricerca e lo potremmo avere in 5 anni, forse meno.
Ah, ma questo sarebbe contrario al libero mercato. Forse sì, però sarebbe altamente ragionevole ed etico: di fronte a un problema reale, l’umanità si coalizza.
Durante la guerra fredda, quando tutti vedevano UFO dappertutto, io speravo tanto in un attacco alieno. non alieni iper-avanzati e amichevoli che ci avrebbero solo distrutto culturalmente, ma alieni cattivi che vogliono eliminarci e terraformare il nostro pianeta perché respirano anidride carbonica. Così, tanto per vedere se USA e URSS finalmente non si sarebbero coalizzate lanciando i missili contro lo stesso bersaglio.
Questo sfogo serve solo a mostrare il grado di demenza del nostro sistema che favorisce l’isolamento aziendale contro la cooperazione.

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