No Surrender!

Categorie: Storia
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Commenti: 19 Commenti
Pubblicato il: 18 Gennaio 2007

Onoda

Chissà quale strana connessione mentale mi fa passare dalle micronazioni ai soldati giapponesi convinti che la guerra non sia mai finita (io scrivo questi post tutti insieme, poi dico a wordpress quando pubblicarli).
Comunque questo è quanto.

I casi dei soldati giapponesi perduti, rimasti in assetto di guerra per molti anni dopo la fine del conflitto sono parecchi.
Andando più o meno in ordine e limitandoci ai casi più famosi, cominciamo da Peleliu.
La battaglia di Peleliu fu, insieme a Tarawa e Iwo Jima, una delle più sanguinose della guerra del pacifico. Gli americani persero 9800 uomini e i giapponesi 13000. Soltanto 300 giapponesi si arresero e furono presi prigionieri.
Una trentina, al comando del tenente Tadamichi Yamaguchi, si nascosero in alcune caverne e vi rimasero fino al 1947, quando furono scoperti. Uno di loro venne catturato.
Per convincere gli altri a uscire senza combattere, gli americani portarono sull’isola l’ammiraglio Michio Sumikawa che parlò ai soldati con un megafono. Nessuna risposta.
Soltanto dopo l’intervento del loro compagno prigioniero, che portò loro giornali e lettere dei familiari, i giapponesi uscirono arrendendosi a 80 marines, mentre il tenente Yamaguchi consegnava la sua spada all’ufficiale americano in comando. Era il 21 aprile 1947.
Anche a Guadalcanal non meno di 100 soldati giapponesi continuarono a combattere, suddivisi in piccoli gruppi, fino all’autunno del 1947. Il 27 ottobre di quell’anno, l’ultimo combattente nipponico si arrese ai militari australiani. Aveva con sé una baionetta rotta, una vanga e una bottiglia d’acqua.
Nel 1948 finalmente si arrese un gruppo di 10/20000 (sì, 20000) soldati rimasti isolati nelle montagne della Manciuria e solo nel 1951, un gruppetto di giapponesi rintanato nell’isola di Anatahan, si convinse che la guerra era terminata. Il punto è che le operazioni per convincerli continuavano dal 1945 (6 anni).
Un altro fu trovato nel 1953 a Tinian e uno nel 1965 nell’isoletta di Vella Lavella, parte delle Isole Salomone. Fu necessario l’intervento dell’ambasciatore giapponese per convincerlo.
I “ritrovamenti” continuarono per tutto il ‘900. I casi più famosi sono quelli di Teruo Nakamura che si arrese nel 1973 sull’isola di Morotai e di Hiroo Onoda (nella foto), nel 1974 sull’isola di Lubang, nelle Filippine.
Quest’ultimo fu un caso particolarmente difficile. Nonostante l’esercito filippino gli consegnasse giornali, lettere, una radio e a dispetto anche dell’intervento del proprio fratello, Onoda non volle credere che la guerra fosse finita. Chi lo tirò fuori fu Norio Suzuki, uno studente, un dropout che vagava per le isole, che divenne suo amico e a cui confidò di essere tuttora in attesa di ordini. Suzuki allora contattò il maggiore Taniguchi, ex-comandante di Onoda, che gli inviò l’ordine di resa. Solo allora Hiroo Onoda uscì dalla giungla consegnando il suo fucile in perfetta efficienza, 500 pallottole e varie bombe a mano, con il saluto immortalato dalla foto. Tutto questo 29 anni dopo la fine della guerra e 15 anni dopo essere stato dichiarato morto.
In fondo era semplice: bastava dargli quello che aspettava per uscirne con onore. In Giappone divenne famoso e scrisse un libro intitolato, appunto, No Surrender.

Qui, un sito sui soldati giapponesi perduti.

19 Commenti
  1. max ha detto:

    …il problema è che credo che Onoda qualche pallottola l’abbia gratutitamente dispensata a qualche pacifico abitante del posto…il che non gli ha certo impedito di diventare una sorta di “simbolo” per la destra nazionalista giapponese.
    C’è un bel documentario su di lui andato in tv qualche anno fa. Forse esplorando vari “torrenti” si trova ancora.
    Ciao, un caro saluto!

  2. Mauro ha detto:

    Ciao max, happy to see you.
    Quello che fai notare è giusto. E non vorrei che qualcuno pensasse che il fatto di dedicare loro un post implichi che io ammiro tipi come questi (sto proprio per cambiare il sottotitolo del blog tanto per chiarire).
    In realtà quello che mi interessa quando posto questi aneddoti è raccontare delle storie estreme, esattamente come mi occupo di musica, in fondo, estrema.
    In realtà, se uno psichiatra avesse potuto mettere le mani su Onoda, avrebbe sicuramente diagnosticato una sindrome maniacale di qualche tipo.
    Perché, va bene che sei un soldato, ma, dopo che il tuo comando non ti contatta per (facciamola lunga) un anno, l’unica cosa sensata da fare è procurarsi un giornale o una radio o parlare con qualcuno.
    E in ogni caso, l’imperativo categorico biologico è uno solo: salvarsi il culo.
    In ogni modo, quello che mi chiedo è: che cosa è scattato nella testa di questa gente?
    Perché fra un po’ vedremo che c’è un caso praticamente identico, anche se per ragioni opposte.

    In fondo mi chiedo anche cosa potrebbe diagnosticare uno psichiatra dopo aver sentito la mia musica. Molti anni fa, un medico che suonava con me, dopo un po’ mi ha spedito un test in 1500 domande usato per valutare tendenze schizoidi.

  3. Lemi ha detto:

    Chiedo venia se porto una nota personale ma secondo me è molto più patologico (sfiora l’autistico) il chiudersi in schemi precostituiti e provare piacere nella sicurezza che da questi ne deriva (come faccio io ad esempio).
    Certo anche la ricerca dell’estremo, dei confini mai visitati, del mai sentito e del mai provato può avere una sua qualche motivazione psicologica (tutto lo ha alla fine) ma credo sia un atteggiamento mentale molto più proprio dell’essere umano in sè.
    Purtroppo così non è e in molti ci rifugiamo nel già sentito, nel già provato. Ma meno male che poi qualcosa si impara da chi, da quei confini torna a raccontare…

    Ps: bella anche l’idea del romanzo, mi pare tu ne abbia da raccontare!

  4. Mauro ha detto:

    Intendi dire che è più sano restare isolati per 33 anni aspettando un ordine che cercare di contattare qualcuno?

  5. Lemi ha detto:

    No no…per carità:-D
    Mi riferivo all’ultima parte del tuo commento, sulla musica. Mi son espresso male…

  6. max ha detto:

    Se il tuo amico medico fosse vissuto in altri periodi forse lo stesso test avrebbe potuto proporlo a Beethoven! Se non era estremo lui…
    Riguardo ad Onoda, sono d’accordo con te, il personaggia a suo modo un grande fascino lo ha, il fascino dell’estremo appunto.
    Ho ritrovato quel documentario su di lui, se ti interessa te lo posso far avere in conservatorio.
    ciao e a presto max

  7. Davide ha detto:

    Questo è il vero patriottismo, l’onore e la fedeltà che un patriotta deve svoggiare, Hiroo Onoda non ha abbandonato la sua guerra poichè credeva nel suo paese, credeva nella sua gente ed ha continuato a combattere fino alla fine, fino all’ultimo respiro senza chiedere niente in cambio. Dovremmo rispettare e apprezzare gente come lui che al primo posto non mette alcun bene materiale ma valori ideologici come la PATRIA, L’ONORE, LA FEDELTà. Forza e onore per Hiroo Onoda

  8. Mauro ha detto:

    Spero sia un commento ironico…

  9. sandro ha detto:

    IO CREDO CHE ONODA COME GLI ALTRI SOLDATI GIAPPONESI FACCIANO PARTE DI UNA CULTURA DOVE SE SI PERDE L’ONORE CI SI SQUARTA IL VENTRE DA SOLI,E PER UN SOLDATO VIENE PRIMA L’ONORE DELLA PATRIA E IL RISPETTO DEGLI ORDINI(ANCHE SBAGLIATI)PIUTTOSTO CHE IL PIù ITALICO “SALVARSI IL CULO”IN QUALSIASI MODO ANCHE GIRANDO LE SPALLE AGLI ALLEATI CHE MAGARI TI AVEVANO PARATO IL CULO FINO A QUEL MOMENTO,CERTO UN MINIMO DI INIZIATIVA DOPO UN Pò DI TEMPO POTEVANO ANCHE PRENDERLA PER VEDERE PER QUALE MOTIVO ANCORA NON GIUNGEVANO NOTIZIE,SU QUESTO SONO D’ACCORDO,MA SUL FATTO CHE NON SIANO DA PRENDERE ESEMPIO MI TROVO IN TOTALE DISACCORDO PERCHè LORO SONO IL MASSIMO ESEMPIO DI RIGORE E TOTALE SACRIFICIO NEI CONFRONTI DI UN VALORE CHE NOI ITALIANI ABBIAMO STRAPPATO L’8 SETTEMBRE 1943 E CONTINUIAMO A STRAPPARLO OGNI 25 APRILE FESTEGGIANDO LA SCONFITTA IN GUERRA…QUESTO VALORE SI CHIAMA PATRIA.

  10. Mauro ha detto:

    ok, sono opinioni e le rispetto, ma sono in totale disaccordo.
    per me, anche lo stesso concetto di patria è da cancellare. l’essere fedeli fino alla morte a un governo solo perché in quello stato ci sei nato o ci vivi, se non condividi quella guerra, per me è pura follia.

  11. erri ha detto:

    La cultura è un prodotto dell’uomo.
    L’onor di patria è un prodotto dell’uomo, il rispetto degli ordini (cioè la volontà di un altro uomo) idem.
    I valori sono un prodotto umano. Se non ci fosse più un uomo sulla terra (o altrove), che ne sarebbe dei valori?
    Il centro della questione per me è questo: “Il sabato è stato fato per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Vangelo di Marco, 2:27): i valori sono tali solamente se favoriscono la vita e la piena realizzazione degli uomini.
    @sandro : ti si è incantato il CapsLock!

  12. Dario ha detto:

    Vi immaginate un soldato Italiano che continua a combattere per quarant’anni, fedele al giuramento prestato al “suo” Re e al “suo” duce?
    Ma col cavolo!!!
    Ma sta gran cippa!!!!!!
    I Giapponesi sono matti,talmente pazzi che acquistano le mutandine usate dalle studentesse (che ci crediate o no,questa pratica costituisce un buon giro di affari in Giappone e consente a molte ragazze di mantenersi agli studi).
    Dunque,ricapitoliamo.
    Nel 1940 io ho vent’anni,il mascellone pelato ed il nano piemontese col figlio finocchio mi chiamano alle armi,e mi spediscono a rischiare la pelle sotto un cielo straniero.
    Arriva la fine della guerra,e secondo voi io non avendo più notizie o ordini da nessuno resto lì per anni ed anni a combattere fantasmi????
    A parte che fin dal prmo giorno il mio unico pensiero è come portare a casa le chiappe sane e salve,e fanculo Benito e Vittorio,ma secondo voi io continuerei a fare la guerra,così,per il Re e per la patria..e non mi verrebbe in mente,che so, “sono tre anni che non ho più avuto alcuna notizia,vuoi vedere che è finita”?
    No,i Giapponesi sono propio matti.

  13. Felice ha detto:

    Concordo.
    Solo un matto o un idiota può restare nascosto inella boscaglia,senza ordini,senza notizie e non essere colto dal dubbio che la guerra è finita.
    E poi per cosa?
    Sacrificare la propia giovinezza la propia vita per…l’imperatore? la patria?
    Ma la mia patria sono io!

  14. Jrd ha detto:

    Questo soldato non è un eroe lui è pazzo vive 30 anni in Lubang isole nelle Filippine, ma la guerra è finita ha scritto il libro di non arrendersi ma lui non lo ha scritto nel libro che ha ucciso molte persone innocenti nell’isola del popolo c’era paura di lui perché quando vede un la persona che uccide e lui ottenere il cibo della povera gente che è la storia perché vivere tanti anni in quell’isola è come un re in quell’isola l’uccisione di innocenti senza alcun motivo che una stronzata e la guerra è la fine 30 anni è fa quello che si pensa in questo tipo di persona per me pazzo, e cosa pensi del popolo in Lubang isola essi non meritano di modo di vivere e lui non avere risposta per quelle persone in Lubang isola che ha ucciso.

  15. Jrd ha detto:

    Questo soldato non è un eroe lui è pazzo vive 30 anni in Lubang isole nelle Filippine, ma la guerra è finita ha scritto il libro di No Surrender, ma lui non lo ha scritto nel libro che ha ucciso molte persone innocenti in l’isola e il popolo aveva paura di lui perché quando vedi una persona era continuare uccidendo la gente e lui ottenere il cibo dei poveri, questa è la storia perché vivere tanti anni in quell’isola è come un re in quell’isola uccidere persone innocenti senza motivo È una stronzata e la guerra è la fine 30 anni è fa quello che si pensa in questo tipo di persona per me pazzo, e cosa pensi del popolo in Lubang isola essi non meritano di modo di vivere e lui non avere risposta per quelle persone in Lubang isola che ha ucciso. Fuck that Book of No Surrender!!

  16. emme ha detto:

    c’è una incomprensione di fondo.
    molti in questi commenti commettono l’errore di applicare a questi casi (prendiamo quello di Hiroo Onoda) schemi mentali occidentali/italici.
    troppo facile (e perbenista) dargli del matto, criticare un concetto di patria ormai logoro e ridicolo.
    nel caso della cultura Giapponese (persino quando s’invischiarono nella storia mondiale alleandosi con i nazifascisci), non è semplice retorica nazionalpopolare, ma una questione più profonda… chi ha un po’ di dimestichezza con la cultura giapponese tradizionale sa di cosa parlo.

  17. Mauro Graziani ha detto:

    sono d’accordo.
    non giudicare ma capire.
    Hiroo Onoda non è pazzo. è sicuramente estremo, anche per la mentalità giapponese, ma è ancora dentro la loro cultura. non fuori.

  18. Matiaz ha detto:

    Ecco il vostro pazzoide Onoda che avete dipinto come uno schizzofrenico malato mentale cosa fece:

    Tratto da: http://www.musubi.it/index.php/biblioteca/vari/159-onoda
    ———————————————–

    Rientrato in Giappone Onoda fu sottoposto ad una incessante attenzione da parte dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. Gli venne richiesto anche di presentare la sua candidatura in parlamento. Decise di sottrarsi alle pressioni raggiungendo il fratello in Brasile. Aveva già 54 anni, e la sua vita era stata bruscamente congelata quando cominciava appena ad avere un ruolo attivo nella società.

    Non si creda che fosse un fanatico già predisposto ad essere condizionato dalla propaganda di guerra. Ancora molto giovane era emigrato in Cina dove lavorava alle dipendenze di una ditta commerciale – furono la sua conoscenza del cinese e le sue esperienze di viaggio che consigliarono all’esercito di destinarlo ai servizi segreti – e ricorda con un pizzico di autoironia di avere avuto una spiccata predilezione per la “bella vita”. Passava le sue notti nelle sale da ballo, la sua conoscenza del cinese era in gran parte dovuta a contatti mirati con ogni ragazza che gli capitasse a tiro, e prosciugava sistematicamente le finanze del fratello maggiore, ufficiale di carriera, per vestirsi da damerino.

    La sua vita, bruscamente interrotta per così tanto tempo, non poteva riprendere in mezzo a tante attenzioni, probabilmente benevole ma sicuramente troppo difficili da accettare. Soprattutto per un uomo vissuto per 30 anni accampato in mezzo alla giungla, che ha visto scomparire tragicamente i suoi compagni e che infine rimase completamente solo, con la sua spada ed il suo fucile, per oltre 2 anni. Senza mai scambiare alcuna parola con altro essere umano.

    In Brasile si costruì una nuova vita inserendosi abbastanza facilmente nella società, ove raggiunse posizioni di rilievo. Divenne un punto di riferimento per la numerosa comunità giapponese e nel 2004 ha ricevuto dall’aeronautica brasiliana la medaglia al merito Santos-Dumont; ma non abbiamo alcuna informazione sulle motivazioni dell’onoreficenza.

    Onoda ha avuto comunque nella sua seconda vita un forte impegno sul piano sociale, condiviso con la moglie Machie che aveva sposato nel 1976. Nel 1996 fece ritorno nelí’isola di Lubang, rinnovando le sue scuse per i tanti problemi creati e per le vite umane da lui spente. Lasciò una donazione da destinare alle scuole. Nel 1980 venne fortemente colpito da un grave fatto di sangue in Giappone: un ragazzo aveva ucciso i suoi genitori. Ritornò in patria nel 1984 e vi fondò un istituto di riabilitazione, lo Onoda Shizen Juku, che educa i ragazzi alla vita in comune all’aperto.

    Continua tuttora a seguire questo suo progetto, facendo la spola tra la patria nativa e quella d’adozione.

    Per quanto ne sappiamo gode di ottima salute nonostante l’età ormai avanzata, e gli auguriamo di goderne ancora a lungo.

    —————————————————

    Mette in moto il cervello ogni tanto … vabbè italiani …

  19. Paolo Bottoni ha detto:

    mi permetto, visto che sono chiamato in ballo come autore dell’articolo citato in precedenza in cui si parla di Hiroo Onoda, di mettere in evidenza un’altra parte del mio articolo che potrebbe rispondere ad alcune delle domande fatte, o perlomeno aiutare a rifletterci ancora

    …. viene spontaneo, conoscendo superficialmente i fatti attraverso i resoconti sommari ed imprecisi dei grandi mezzi di comunicazione, pensare che l’intera vicenda sia stata possibile solo per un clamoroso fraintendimento da parte di Onoda, attraverso processi logici evidentemente tarati da qualche falla di metodo o da insufficienti ed errate informazioni. Se la seconda parte di questa spiegazione è fondamentalmente accettabile, certamente la responsabilità non può essere attribuita allo stesso Onoda.

    Onoda ha agito come ci si attendeva che agisse in circostanze analoghe qualunque soldato giapponese. E’ difficile ormai rendersi conto di quanto possa influire la propaganda bellica sopra la mentalità di un popolo. Ma è opportuno non perdere la memoria di casi come quelli di Hiroo Onoda, per evitarne il ripetersi. Al di là delle vicende delle singole persone, il caso Onoda ne è un esempio tipico: rimase isolato a combattere la seconda guerra mondiale al comando di un reparto di soli 3 uomini, perdendoli poi nel corso degli anni e rimanendo infine completamente solo per altri due anni. Va esaminato attentamente per ricavarne utili indicazioni che possano essere “proiettate” su scala più vasta ed intuire quali possano essere le conseguenze sulla società intera di una informazione errata e a volte deliberatamente scorretta, che diventa pura propaganda asservita a scopi di parte.

    Hiroo Onoda con fredda capacità di analisi rende conto del suo libro della sua assoluta impossibilità di credere alle squadre di ricerca che tentavano di convincerlo che la guerra fosse finita: gli venivano lasciati qua e là dei giornali giapponesi, nella speranza che leggendoli si convincesse della inutilità di continuare nella sua “missione”. In realtà proprio quei giornali, che gli descrivevano nel 1959 un Giappone prospero e felice, intento a celebrare il fidanzamento dell’erede al trono, lo confrontavano con situazioni non compatibili con l’addestramento ricevuto: ogni giapponese nel 1944 era sinceramente persuaso che piuttosto che accettare la resa la nazione avrebbe combattuto fino all’ultimo uomo, fino all’ultima donna.

    Se la guerra fosse veramente finita con la sconfitta, del Giappone intero non avrebbe dovuto rimanere pietra su pietra. La realtà che gli veniva descritta doveva necessariamente essere un inganno del nemico, uno di quegli inganni da cui era stato messo in guardia incesssantemente.

    Le squadre di ricerca che nel corso degli anni si alternarono sull’isola di Lubang, commisero un errore comprensibile ma dall’esito necessariamente infausto, che Onoda identifica immediatamente: non hanno tenuto conto della portata epocale del cambiamento che gli chiedevano. I giornali del 1959 e quelli che vennero lasciati in seguito lo ponevano di fronte ad una immagine del mondo totalmente differente da quella che era stato condizionato ad avere, ma senza fornirgli alcuna spiegazione sulle cause del cambiamento e sui passi attraverso i quali si era articolato. In sintesi, se invece di fornirgli informazioni tratte dai giornali di attualità del 1959 e seguenti gli avessero man mano lasciato una raccolta di giornali del 1945, 1946 e via dicendo, gli avrebbero dato la possibilità di comprendere gradualmente la portata del cambiamento, ed accettarlo.

    Hanno concorso naturalmente alla incredibile durata della resistenza armata di Onoda anche altre circostanze, occasionali ma importanti: dopo la resa del Giappone i reparti giapponesi continuavano ad essere accolti col fuoco delle armi non appena venivano avvistati, e questo naturalmente confermava l’idea dei guerriglieri che la lotta continuasse. Inoltre l’esercito filippino è stato quasi continuamente impegnato a reprimere la guerriglia interna, che continua ancora ai giorni nostri, superando quindi di gran lunga la durata della guerra privata di Onoda che pure ha fatto tanto scalpore. Di conseguenza l’isola di Lubang veniva perlustrata in continuazione da reparti armati di tutto punto, e per giunta fu per un certo tempo utilizzata come poligono di tiro e le zone ove si aggirava il minuscolo reparto di Onoda vennero spesso cannoneggiate.

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