Le magliette dei bianchi morti

Categorie: Mercato, Società
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Commenti: 3 Commenti
Pubblicato il: 19 Settembre 2007

È l’espressione con cui gli africani indicano gli abiti usati che provengono dall’occidente, perché nessuno di loro può credere che questi vestiti vengano buttati solo perché noi non abbiamo più voglia di indossarli.

Torno a casa dopo mezzanotte, mi faccio un gin tonic, accendo la tv e piombo in mezzo a un documentario (ovviamente RAI3) che segue il viaggio di una maglietta da un contenitore di abiti usati in Germania fino all’Africa. Il titolo è Mitumba – The second hand road, regista e produttore Raffaele Brunetti.
La storia è molto più complessa di quanto si possa immaginare. A suo modo è una storia estrema. Non è una denuncia. È solo una storia che chiarisce anche un po’ di meccanismi del mercato di cui in genere non ci rendiamo conto.

Dunque, la nostra maglietta viene buttata in un raccoglitore di vestiti usati dalla mamma di un bambino tedesco a cui la maglietta è “scappata”. Lei pensa che questi vestiti regalati vadano a coprire, gratis, gente bisognosa, ma non è esattamente così.

I contenitori, in genere, sono gestiti da organizzazioni non profit, come la Caritas o la Croce Rossa. Dunque, in questo caso, Caritas e/o Croce Rossa (o altri) raccolgono gli abiti usati dai contenitori e poi li vendono a una azienda che tratta abiti usati. Il prezzo è basso, si vendono a peso e il prezzo è calcolato in base ai costi del ritiro, più un margine di guadagno, oppure la ONG non gestisce nemmeno il ritiro, ma lo affida a una organizzazione privata in cambio di una percentuale. In tal modo organizzazioni come quelle citate si auto-finanziano.
L’azienda che gestisce abiti usati dà una lavata a tutto e poi suddivide la merce per tipologia, stato di conservazione e colore. Da qui, gli abiti possono prendere diverse strade. Per esempio, i capi ben conservati degli anni ’70 finiscono nelle boutique dell’usato giapponesi, dove sono considerati oggetti di culto. Altri tipi di capi finiscono nei nostri negozi dell’usato. I capi totalmente distrutti e inusabili vengono ceduti alle aziende che riciclano i tessuti. Tutto il resto finisce nel terzo mondo.
Ma non ci finisce gratis. Non può. Come “non esiste un pasto gratis” [Milton Friedman], così non esiste un costo zero. Esistono invece aziende che si occupano del trasporto dei vestiti, ormai confezionati in grosse balle, fino all’Africa, in uno dei 21 punti di raccolta sparsi in vari stati africani. Il prezzo, naturalmente, cresce in base ai costi di trasporto. Poi, altre organizzazioni locali, grandi o piccole, acquistano una o più balle, le aprono e distribuiscono i singoli capi sul territorio, vendendoli sia direttamente che a rivenditori, “negozi” che agiscono a livello di villaggio.
Gli africani comprano i nostri abiti usati che offrono garanzie di qualità e durata superiori a quelle dei capi prodotti nel loro paese e ormai chiamano Mitumba, che originariamente significa “balla”, tutto l’abbigliamento di seconda mano proveniente dal primo mondo. Lo apprezzano talmente che si sono registrate truffe consistenti nel vendere vestiti nuovi di fabbricazione cinese spacciati per Mitumba.
In alcuni paesi africani i vestiti usati costituiscono la prima voce di importazione, infatti il 90% della popolazione si veste di seconda mano. Li chiamano “I vestiti dei bianchi morti” proprio perché in Africa è inconcepibile pensare di disfarsi di cose ancora utilizzabili a meno che il proprietario non sia morto.
Ma il significato del termine mitumba ormai è in espansione. In Kenya si parla, infatti, di mitumba economy per indicare la consuetudine di costruire servendosi della spazzatura degli altri.

Tutto questo mi ricorda un aneddoto narrato da Jared Diamond nel suo “Armi, acciao e malattie”. Yali, abitante della Nuova Guinea e uomo politico in quel paese da poco sulla via dell’autogoverno, pone in modo diretto all’autore, bianco e scienziato, una questione fondamentale: “Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”, dove il termine “cargo” si estende dalla nave all’insieme dei beni materiali che la nave trasporta.
Anche qui un’insufficienza linguistica. Anche qui una cultura non riesce a reagire all’opulenza di un’altra.

The T-shirt of Felix, a 10-year-old German boy, winds up in an old clothes collection point, the starting place for a journey spanning two continents: donated, collected, bought and sold several times over, finally worn by Lucky, a 9-year-old boy who lives in a small Tanzanian village. In some African countries, used clothing ranks first in imported goods. In fact, 90% of the population wears second hand clothes, called “dead white men’s clothes” because no one in Africa would throw away anything still good unless it came from a dead person. Deals, persons and places along the secret route trade routes of the used clothing business, a hidden road that reveals a surprising reality.

Raffaele Brunetti is a documentary producer and director. Since 1987 he has made documentaries in Italy, the Near East, and the Mediterranean. In his early career he worked with Japanese TV networks (NHK, TBS, NTV, FUJI TV). He then collaborated with National Geographic, BBC, Arté, Yle, History Channel, contributing to over 100 award-winning documentaries. In recent years he has directed historic and fiction documentaries.

3 Commenti
  1. erri ha detto:

    Un articolo di diversi anni fa (forse su Avvenimenti), quando erano appena apparsi in Italia i contenitori gialli della Caritas, seguiva nello stesso modo la sorte degli indumenti usati. Si occupava sia dei contenitori gialli che della raccolta porta a porta delle varie associazioni pseudo-benefiche (tipo associazioni di non-vedenti, di bambini di strada, di azione nel Mato Grosso, ecc.). L’articolo, dunque, sosteneva che, senza eccezioni, il 100% di tutti questi indumenti finisse a Prato, nel riciclo. Questo mi aveva fatto una tale tristezza, che da allora getto solo le cose che hanno già fatto onorato servizio come stracci, mentre gli abiti “buoni” li regalo direttamente.
    Chiedo scusa per la deriva autobiografica….
    ciao!

  2. rossella ha detto:

    è pazzesco, non credevo che ci fosse un mercato dietro i vestiti usati che noi pensiamo di far arrivare a chi ne ha bisogno…e poi dovremmo davvero riflettere sullo spreco di abiti che è in uso in occidente a fronte della miseria nel sud del mondo…

  3. Mauro ha detto:

    Magari arrivano a chi ne ha bisogno. Il punto è che non ci possono arrivare gratis.
    In molti casi arrivano a prezzi stracciati, bassi anche per loro e così, a volte, facciamo dei quasi regali ma distruggiamo la loro economia.

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