Il malfunzionamento dell’iperdrive del Millennium Falcon

star-wars-hyperdriveBen Burtt, sound designer, spiega come è stato creato il suono, in parte comico, del malfunzionamento dell’iperdrive del Millennium Falcon in Star Wars.

Il suono in questione è il missaggio di otto suoni diversi, quasi tutti prodotti da false partenze o spegnimento di motori o ingranaggi. Il che dimostra, ancora una volta, che, per fare il sound designer, non serva poi essere degli esperti in tecnologie, quanto essere creativi e soprattutto aver passato così tanto tempo ad ascoltare e sperimentare con il suono da riuscire a capire quale effetto può fare un certo suono, magari iper-amplificato o con la velocità cambiata.

In effetti, in questo esempio, la tecnologia arriva, al massimo, a un mixer e a un registratore a velocità variabile. E di questo è fatto il 98% degli effetti cinematografici più famosi (in Star Wars fa eccezione il suono di R2D2 creato con un sintetizzatore analogico ARP 2600).

Ben Burtt ha creato quasi tutti i suoni di Star Wars mediante missaggi. Per la voce di Chewbacca, per esempio, ha registrato centinaia di suoni di orsi, trichechi, leoni e altri animali. Poi ha cercato di catalogarli in base alle emozioni che trasmettevano e fondendoli insieme, ha creato il linguaggio di Chewbacca.

È interessante, poi, sentire come ha creato il famosissimo suono della spada laser:

Burtt said he could “hear the sound in his head.” At the time, he was still a graduate student at USC and was working as a projectionist. The old projector had an interlocked motor which, when idle, made a “wonderful humming sound.” Burtt recorded it, and it became the basis of the lightsaber sound. But it wasn’t enough — he needed a buzzing sound, and he actually found it by accident. Walking by television set with a live microphone, the microphone picked up the transmission from the unit and produced a buzz. Burtt loved it, recorded it, and combined it with the projector motor, creating a new sound that became the basic lightsaber tone. To achieve the aural effect of a lightsaber moving, he played the hum out of a speaker and waved a microphone by it; doing so created the fascimile of a moving sound, and in this case, the sound of a Jedi or Sith wielding a weapon in battle.

Il tutto fa pensare alla vecchia conferenza di Stockhausen su scoperta e invenzione, la cui essenza è che in campo musicale (e sonoro), alcune cose accadono perché sono state progettate, mentre altre si scoprono per puro caso, spesso lavorando a qualcos’altro.

Linguaggi fischiati

Sono rari ma esistono. I linguaggi composti da fischi sono tipici di alcune località con caratteristiche che rendono difficili i contatti ravvicinati fra le persone. Un esempio sono i luoghi molto montagnosi e frastagliati, dove la gente può vedersi da lontano, ma per arrivare a contatto diretto deve camminare un bel po’.

Di conseguenza, per scambiare due parole con il tipo che vedi sull’altro versante, bisognerebbe urlare, invece, in alcuni luoghi, si è sviluppata una forma di comunicazione basata su fischi. A pensarci, anche Venezia è un posto così. Capita spesso di vedere qualcuno che conosci, solo che, invece di essere dall’altra parte della strada, è dall’altra parte del canale e il ponte più vicino è almeno a 200 metri, nella direzione opposta a quella in cui stai andando.

Bene, a Venezia non è successo, ma in Messico, nel nord-est della regione di Oaxaca, è possibile sentire uno dei rari esempi di linguaggio basato sui fischi. Questa lingua non sostituisce quella parlata, che peraltro è complessa perché, pur facendo tutti parte della stessa famiglia linguistica, quella Chinantec, nella zona esistono almeno 14 dialetti mutualmente inintelligibili. I fischi si pongono, invece, come una forma di comunicazione parallela, utilizzata quando le persone si vedono, ma non possono avvicinarsi a causa della natura montuosa del terreno.

In questo video ne sentite un esempio: si tratta di una conversazione cordiale fra due agricoltori che sono al lavoro in due appezzamenti di terreno. Si vede anche la versione scritta della conversazione.

Un altro luogo in cui si è sviluppata questa forma di comunicazione è La Gomera, un’isola delle Canarie. Qui abbiamo un video in cui si vede un buon esempio a partire da 5’35”.

La lingua di Babilonia

cuneiformeL’accadico (akkadû) era una lingua semitica parlata nell’antica Mesopotamia, in particolare dagli Assiri e dai Babilonesi. Utilizzava la scrittura cuneiforme che era stata inventata dai Sumeri. Il sumerico, una lingua non-semitica isolata, influenzò l’accadico sul piano del lessico, e lo segnò con la sua impronta culturale. Nell’impero accadico di Sargon la lingua accadica era di fatto la lingua della burocrazia e dell’esercito, mentre il sumero rimase in uso come lingua liturgica. Il nome della lingua deriva dalla città di Akkad, un grande centro della civiltà mesopotamica.

La lingua accadica è vissuta per circa tre millenni: dal 2800 a.C. fino al primo secolo d.C. quando ormai sopravviveva solo come lingua tradizionale (un po’ come il latino da noi). In realtà cominciò a declinare già nell’ottavo secolo a.C., gradualmente sostituita dall’aramaico, per ricevere il colpo finale in seguito alla conquista di Alessandro Magno.

Oggi, però, torna, in parte. a rivivere nella sua variante babilonese (l’altra era l’assira). Alcuni studiosi della Cambridge University hanno dedotto quella che poteva essere la pronuncia basandosi sia sulla trascrizione di parole babilonesi in altre lingue, che su uno studio delle combinazioni delle lettere negli antichi testi.

Il Dr. Martin Worthington, a cui va ascritto il maggior merito del lavoro, afferma

It’s essentially detective work. We will never know for sure that a Babylonian would have approved of our attempts at pronunciation, but by looking at the original sources closely, we can make a pretty good guess.

E ora, dopo quasi 2000 anni di oblio, possiamo ascoltare il suono del poema di Gilgamesh e di molti altri testi in lingua originale.

Il canto degli antenati

Qualche report sui libri letti durante l’estate. Inizio con il bellissimo “Il canto degli antenati” di Steven Mithen (Tit. orig. The singing neanderthal, 2005). Sottotitolo: Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo.

Mithen, archeologo britannico, parte da un assunto: la propensione a fare musica è uno dei più misteriosi, affascinanti e allo stesso tempo trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha sottovalutato questo campo di studio, definendo la musica come una tecnologia, un prodotto, creato unicamente a scopo ludico e ricreativo, e non come un adattamento selettivo. Diversamente, Mithen sostiene che lo studio dell’origine del linguaggio, e più in generale dell’abilità comunicativa dei nostri antenati, dovrebbe essere rivalutato alla luce dell’aspetto musicale, che a sua volta non può prescindere dall’evoluzione del corpo e della mente.

Si tratta di un’idea che per molti musicisti è intuitivamente vera, ma che finora non era stata sostenuta dalla letteratura scientifica e dalla ricerca. Ma l’ipotesi di Mithen va più in là. Citando la recensione di Giuseppe Mirabella su Le Scienze (Apr. 2007):

La musica è un elemento proprio di tutte le culture umane. Strumenti musicali, canti e danze rituali fanno parte di tutte le società, da quelle moderne alle più primitive. E l’enorme diffusione delle abilità musicali ha fatto ipotizzare che questa capacità avesse un ruolo evolutivo. Ma quale può essere stato il vantaggio selettivo offerto dalla musica ai nostri antenati? Steven Mithen, archeologo cognitivo dell’Università di Reading, prova a formulare una teoria molto accattivante, secondo la quale i primi ominidi comunicavano attraverso un linguaggio musicale, un miscuglio tra il linguaggio e la musica come li intendiamo noi oggi. Secondo Mithen, questa forma di comunicazione avrebbe toccato l’apice nei neandertaliani. Che avevano una configurazione delle alte vie respiratorie che avrebbe consentito loro di parlare, ma non disponevano dei circuiti nervosi deputati al controllo del linguaggio. Le difficili condizioni ambientali in cui vivevano e la crescente complessità dei loro gruppi sociali richiedevano uno scambio continuo di informazioni, e quindi si sviluppò un sistema di comunicazione articolato che includeva sia suoni sia gesti del corpo.

Per definire il sistema di comunicazione dell’uomo di Neanderthal, Mithen ha coniato l’acronimo “Hmmmm”, per olistico (holistic), multi-modale, manipolativo and musicale (invidio molto la facilità dell’inglese nella creazione di acronimi):

“Its essence would have been a large number of holistic utterances, each functioning as a complete message in itself rather than as words that could be combined to generate new meanings.”

Probabilmente anche i primissimi Homo sapiens comunicavano in questo modo, ma lo sviluppo del cervello consentì loro di evolvere un vero e proprio linguaggio dotato di una grammatica, cioè di un sistema per combinare i simboli base a formare nuovi significati. L’ipotesi di Mithen è necessariamente di natura speculativa, ma le prove indirette che porta a suo sostegno sono numerose e convincenti.

NB: il libro è effettivamente affascinante, ma non facilissimo. È un trattato scientifico che deve prendere in considerazione, riferire e valutare le ricerche e gli esperimenti condotti finora. Di conseguenza, a tratto, non è discorsivo e scorrevole. Vivamente consigliato a coloro che nutrono un interesse particolare per questo argomento.

Interspecies

dolphin

La mission di Interspecies è di coinvolgere gli artisti per migliorare le relazioni fra esseri umani e animali. Una delle cose interessanti è che questi mettono a contatto diretto i musicisti con i cetacei, tentando di instaurare una comunicazione sonora.
Molto materiale, anche sonoro, sui cetacei è disponibile sul sito, incluso il disco Belly of the Whale e un attirante articolo sulla logica del linguaggio delle balene.

La Musica dei Krhaangh, Pt. 1

Ci giunge questo contributo dal Dott. HakNam Auroma, esomusicologo affiliato all’Istituto di Esobiologia dello Spazio Profondo e attualmente distaccato sull’Enterprise. Volentieri pubblichiamo (in più parti perché è lungo e la traduzione è in corso).

I Krhaangh sono esseri chitinosi.
Questi individui insettiformi sono tenuti insieme da un esoscheletro con apposite superfici di risonanza. Non avendo alcun organo vibrante interno né alcuna possibilità di soffiare aria, i Krhaangh non sono in grado di produrre suoni continui. Tutto il loro universo sonoro è percussivo.
Naturalmente anche il loro linguaggio è formato da suoni percussivi. Come negli umani, infatti, lo stesso organo serve sia per il linguaggio che per la musica. Così, per capire le basi della musica dei Krhaangh, cominciamo con l’esaminare il loro linguaggio.

Le basi del linguaggio Krhaanergh

L’evoluzione agisce con principi simili in tutti i luoghi. Con il progredire della specie verso quella che chiamiamo intelligenza, si manifesta la necessità di una comunicazione via via sempre più complessa.
Nei Krhaangh, questa esigenza ha condotto allo sviluppo di cavità risonanti formate da una membrana chitinosa curva e di uno spazio sottostante perennemente riempito di aria.
Lo spessore della membrana non è costante, ma è più spesso verso i bordi e più sottile nella parte centrale. In tal modo, la sua percussione in diversi punti produce altezze diverse, più basse e sorde verso i bordi, più alte e vibranti al centro.
I Krhaangh percuotono tale membrana con le 3+3 dita ungulate con cui termina il secondo paio di braccia di cui sono dotati.
La cosa interessante è che, data la normale differenza di dimensioni fra i vari individui, anche le membrane risonanti sono di dimensioni diverse, il che significa che le altezze prodotte non sono le stesse per tutti gli individui. La cosa, in sé, non sorprende. Accade lo stesso anche negli esseri umani: generalmente la voce è più alta nelle femmine rispetto ai maschi e ancora più alta nei bambini.
Questo significa soltanto che, nella comunicazione degli esseri umani, l’altezza non è importante. Infatti possiamo dire una parola con voce bassa o in falsetto e la capiamo sempre.

La spiegazione è che, per noi, l’essenza della comprensione non è nelle altezze, ma nella successione di diversi suoni, cioè nelle differenze timbriche.
Ciò che è sorprendente, invece, è che, nei Krhaangh, l’essenza della comprensione sta proprio nelle altezze. Ma non nelle singole altezze, bensì nella loro successione, cioè nel profilo melodico.
Facciamo un esempio. Chiamiamo:
A un suono alto
M un suono di altezza media
B un suono basso
Ricordate che si tratta sempre di suoni percussivi di durata molto breve, come nel caso di un piccolo tamburo o di un tavolo di legno. La membrana chitinosa è piuttosto rigida.
Se ora produciamo la successione AMB, cioè alto – medio – basso, un po’ come una terzina a metronomo 80 (ma la velocità non è veramente importante), otteniamo la parola Krhaanergh che significa “io”, “me stesso”.
Se invece produciamo la successione ABM, alto – basso – medio, abbiamo l’espressione che significa “tu”.
Per la distinzione, non è importante quali note siano A, M e B, ma la loro successione: l’insieme nota iniziale – nota più bassa – ancora più bassa, significa “io” quali che siano le tre note, così come l’insieme nota iniziale – nota più bassa – nota più alta significa “tu” indipendentemente dalle note.
In effetti, parlando in termini un po’ più musicali, la parola “io” può essere codificata come “* – -” (asterisco meno meno) che significa “una nota qualsiasi, una più bassa, una ancora più bassa”. Nello stesso modo, “tu” si codifica “* – +”.
Di conseguenza, che suoniate Do4, Sol3, Do3 oppure Mi5, Fa#4, Fa3, un Krhaangh capirà sempre “io” perché per lui la cosa importante è l’andamento melodico (al massimo penserà che la vostra pronuncia è schifosa).
Tranne alcuni casi minori, la ripetizione di una altezza non esiste. In una singola parola, l’intervallo fra un suono e il successivo non è mai l’unisono; va sempre su o giù e i Krhaangh sono sensibili solo alla direzione dell’intervallo, non alla sua ampiezza.
Una frase Krhaanergh, quindi, è formata da una serie di gruppetti, ognuno dei quali è una parola, separati fra loro da una piccola pausa. L’aspetto ritmico e la velocità non sono importanti, a condizione che il “discorso” sia sufficientemente continuo e che i gruppetti siano chiaramente separati fra loro.

Dopo questo assaggio di grammatica Krhaanergh, ricordando che ogni gruppetto di percussioni è interpretato come una singola parola o un concetto, è importante capire quante siano le altezze utilizzate, per avere un’idea dell’estensione del loro dizionario.
Innanzitutto, l’entità minima è formata da 3 suoni. Le combinazioni di 2 suoni sono rare e vengono interpretate come delle interiezioni tipo ah, oh, beh o cose del genere (in realtà sono solo 2: * + e * -).
Fanno eccezione il segnale di assenso (sì: 2 suoni uguali, alti e veloci) e il diniego secco (no) che, pur essendo formato da 3 suoni bassi, è eseguito in modo così rapido da sembrare (a noi) un solo evento sonoro.
Collegato con l’assenso è anche un segnale singolo, alto, ripetuto più volte mentre l’interlocutore sta “parlando”, il cui significato è “capisco”, “ti seguo”, un po’ come quando noi emettiamo il caratteristico “mm mh” durante il discorso di un altra persona.
Questi sono gli unici casi di ripetizione della stessa altezza.

Finora, dall’analisi delle registrazioni da noi effettuate, il gruppetto più lungo risulta essere di 12 suoni, così come 12 è il massimo numero di altezze utilizzate (è il caso di una parola formata solo da intervalli ascendenti o discendenti). Notate che il numero 12 è coerente con il numero delle dita presenti negli arti usati per la comunicazione (3+3). In realtà siamo noi ad avere un numero di altezze strano rispetto alle nostre dita.
L’estensione di queste 12 altezze è di circa 2 ottave, cioè l’estensione che la membrana è in grado di produrre.
Dato che per i Krhaangh, l’unica cosa conta è la successione degli intervalli intesi solamente come ascendente o discendente, ne consegue che il loro dizionario è formato da 8188 parole di base (212+211+210+29+28+27+26+25+24+23).
Questo numero non è elevato, se confrontato al nostro dizionario di circa 300.000 parole, ma, a quanto ci risulta, i Krhaangh possono esprimere concetti complessi con l’accostamento di più parole (un po’ come cinesi e giapponesi riescono a esprimere tutte le sfumature linguistiche accostando alcuni dei loro 5000 ideogrammi).
Abbiamo anche notato, però, che l’estensione del vocabolario non è uniforme. Le classi sociali più basse fanno “discorsi” meno complessi. Non possiamo ancora dirlo con certezza, ma potrebbero utilizzare solo 11 suoni, disponendo così di sole 4092 parole base (le analisi sono ancora in corso). La cosa è coerente con il fatto che i piccoli accrescono gradualmente il numero di suoni utilizzati (come del resto fanno i nostri).
Il fatto che ci siano queste differenze, tuttavia, ci porta anche a chiederci se esistano individui che sono in grado di utilizzare gruppetti ancora più complessi. Attualmente, non abbiamo nessuna prova certa di aver contattato le massime intellighenzie di questa colonia, quindi non possiamo escludere che esista qualche individuo in grado di farlo.
In effetti, come vedremo, la loro musica raggiunge livelli di complessità anche superiori.